Disclaimer. Per scrivere questo articolo c’è bisogno di una premessa. Acquistare oggetti o capi second hand è sicuramente più ecologico di acquistare continuamente oggetti o capi nuovi. Soprattutto in un mondo sempre più esteta come il nostro, basato su logiche astringenti, di apparenza e quantità, e inevitabilmente legato al fast fashion e alla cultura del consumo rapido “usa e getta”, scegliere il riuso e la compravendita di seconda mano è, certamente, una modalità etico-valoriale migliore.

Ciò che ci chiediamo, però, è se l’economia circolare del mercato dell’usato possa essere, in tutti i casi, eco-friendly. Avete mai pensato, ad esempio, agli acquisti online che, una volta arrivati a casa e provati, poi tornano indietro? 

Il second hand

Ma partiamo dal principio: come nasce l’esigenza del second hand? Quali sono le politiche che lo regolano? E cos’è l’economia circolare?

Per rispondere a questi tre quesiti occorre, prima di tutto, identificare quelle che vengono chiamate le tre “R”, ovvero Ridurre, Riusare e Riciclare. Sono questi, infatti, i tre pilastri di ciò che definiamo circular economy: un modello di produzione e di consumo che cerca di ridurre al massimo gli sprechi e di promuovere il ricondizionamento, e quindi anche il riciclo, di cose già esistenti. 

Come potete immaginare, il perché di una tale scelta è piuttosto evidente. Con gli anni e la crescita di benessere, e quindi di consumo, è nato il bisogno di ripristinare un insieme di comportamenti che riducano al minimo il loro impatto ambientale. Questo perché, da molti studi a riguardo, si evince che l’emergere di una richiesta sempre più alta di alcuni prodotti (pensiamo all’ambito del vestiario, ma non solo) ha generato negli anni una risposta spaventosamente inquinante. In altre parole, si è notato quanto la domanda sia maggiore rispetto alle risorse naturali a nostra disposizione e alla nostra capacità di smaltimento.

Una piccola specifica terminologica

A tal proposito conviene specificare un altro termine: la parola inquinamento. Con questo concetto non si vuole parlare solo di rispetto, cura e mantenimento del nostro ecosistema ambientale – la sopravvivenza del pianeta Terra, per intenderci – ma anche, metaforicamente, di ciò che concerne la grande sfera dei diritti umani. Molti brand di fast fashion, infatti, per promuovere e proporre prodotti a basso costo, sfruttano e sottopagano chi li realizza, oltre a sovra-produrre cose che non è detto vengano poi effettivamente comprate. 

Sulla base di tutto questo, quindi, da un po’ di anni e con picco durante la pandemia e il lockdown, si assiste alla crescita, e all’ampliamento, di una necessità: riutilizzare e recuperare, almeno nei casi in cui questo è effettivamente possibile.

A pensarci, quella del second hand non poi una novità tout court. Anzi, sembra per certi versi l’evoluzione di una pratica antica. Una di quelle in cui tutti più o meno siamo incappati nel periodo dell’infanzia. Quanti da bambini hanno indossato, ad esempio, i capi della sorella o del fratello più grande, di una cugina o cugino, oppure di una/un parente, per poi, regalare a propria volta quelli che non stavano più?

L’impatto del fast fashion e la risposta del decluttering

Con uno studio recente, la Ellen MacArthur Foundation ha stimato che, solo nel 2017, dei 53 milioni di tonnellate di fibre utilizzate per produrre i capi di abbigliamento, soltanto il 12% è stato riutilizzato, mentre il 73% è finito in una discarica o in un inceneritore. Si tratta di dati sconcertanti nei loro numeri. E, sebbene questa circostanza, sul filone di una consapevolezza sempre maggiore degli utenti, abbia portato molte aziende a invertire la propria rotta e cambiare sguardo; ne ha portate tante altre a cadere in quello che chiamiamo greenwashing. Un ecologismo di facciata

Tenendo presente questi numeri, comunque è comprensibile lo spostamento (con escalation nel 2021) di molte persone su piattaforme di vendita di second hand online, basate su forme di scambio (baratto) o di acquisto che partono da una radice comune: il decluttering. Letteralmente: liberarsi delle cose superflue, per favorire il riuso o l’upcycling creativo di quelle cose. Il fenomeno è sempre più virale, pare, e a confermarlo anche un report di proiezione per i prossimi anni realizzato da threudUP.

Tuttavia, una domanda resta, e sorge in contesti come alcune app che, fondate sul riuso, permettono, però, contemporaneamente il reso.
Ecco: quanto è sostenibile, ad esempio, un reso, in termini ambientali? 

I problemi (anche) del second hand

Premesso anche qui che, fare un reso di indumenti fast fashion, partendo già da un a-priori zero sostenibile, sia un peggioramento – da principio – di questa dinamica: siamo sicuri che lo stesso impatto non possa averlo anche il second hand online cui è prevista questa possibilità? E, nel caso fosse così, come fare per evitarlo, e fare le cose ben fatte dall’inizio?

Ogni anno vengono prodotte almeno ventisette tonnellate di CO2 (nel 2021, più di cinque tonnellate solo in Italia) e, buona parte, derivano dai mezzi di trasporto e dall’ambito della distribuzione. Direte: e perché questo a che fare con il second hand? Perché è in questo contesto che si inserisce la logica del reso, accattivante per la maggior parte degli e-commerce online, comprese quelle app che pure tentano, e certamente in parte riescono con ottimi risultati, a promuovere bonariamente il riuso e, di conseguenza, la sua sostenibilità ambientale. Insomma, se su tutta la linea acquistare cose usate ci permette di tenere fede al principio di conservazione e sopravvivenza della specie, il fattore reso crea oggi qualche problema. Tanto che molti cominciano a credere che la cosiddetta logistica inversa, appunto le spedizioni di reso, sia una delle nuove sfide contemporanee. 

Nella stessa direzione, meno evidenti ai più ma pur sempre presenti, inoltre, le questioni sulla gestione dei grandi magazzini, per pulire e conservare gli articoli usati prima di inviarli e la sostenibilità degli imballaggi. Due problemi, anche questi, cui si potrebbe facilmente ovviare.

Possibili soluzioni del singolo

Quali sono, quindi, le azioni concrete che possiamo mettere in atto per migliorare le cose? Questa la grande domanda che ci si continua a porre.

Tanto per cominciare, sui resi si può pensare ad una modalità prima di tutto singola: un accordo tacito tra chi vende e chi compra. Avete mai fatto caso alle descrizioni degli oggetti o degli abiti che si trovano online? In molti casi, sono piuttosto scarne e prive di dettagli. Un primo piccolo gesto, utile a evitare i resi, potrebbe essere quindi quello di specificare meglio le caratteristiche del prodotto che si mette in vendita. In questo modo, chi è dall’altro lato dello schermo può prendere esattamente le misure e capire se, davvero, quella cosa fa al caso suo oppure no.

Più si è precisi nel presentare il prodotto, segnalandone anche i piccoli difetti, per dare all’altro piena possibilità di scelta, più la compravendita andrà a buon fine. Dall’altro lato, stabilita la consapevolezza e la necessità (reale) di quel click, chi acquista deve leggere attentamente le caratteristiche di ciò che sta per comprare. Solo così, può misurare quell’acquisto su di sé.

Visto che siamo vicini al Natale, poi, e il trend del riuso investe anche la sfera dei regali natalizi, si può pensare a un riciclo del pacchetto. Un modo ormai sdoganato che, con poco sforzo, può limitare il numero dei return. Si può regalare quell’abito o quell’oggetto a mano, magari alla cena di Natale.

Uno sguardo sul singolo, infine, non può non tenere conto della sua frequenza di acquisto. Il fatto che qualcosa sia usato ma ancora vendibile non legittima, chi compra, all’acquisto compulsivo. Il problema della frequenza e dell’accumulo si inseriscono, infatti, come modalità altrettanto inquinanti a livello di trasporti.

Cosa possono fare le aziende?

Se guardiamo alle aziende, e di conseguenze agli interventi più collettivi e sociali, si apre invece un ulteriore campo di possibilità d’intervento.
Solo per quanto riguarda le spedizioni, ad esempio, si può pensare a sistemi di geolocalizzazione che permettano all’utente di trovare ciò che cerca vicino a dove si trova, limitando la distanza di trasporto delle merci.

Da qualche anno, poi, alcuni mercati di second hand hanno cominciato ad incoraggiare nuove pratiche di consegna. Da un lato favorendo modalità ESG-friendly per spedire, come l’utilizzo di armadietti pick up and drop off (PUDO) utili al ritiro; dall’altro, sostituendo i vecchi veicoli inquinanti con veicoli ibridi o elettrici (EV).

La soluzione sembra, addirittura, meno complessa per i resi. Si potrebbe stabilire, ad esempio, un tetto massimo di return mensile per ogni utente che utilizza l’app o il sito di vendita di prodotti second hand online.

La strada da fare è ancora lunga, ma la sinergia di singolo, collettività, aziende e società si dimostra ancora una volta la via più fruttuosa.
Se oggi scegliere è un enorme privilegio, saper scegliere con consapevolezza è tutt’altra storia. Non basta capire cosa scegliere, ma come scegliere, perché le conseguenze investono ormai il nostro futuro. 

Credits: Pixabay.com

Francesca Rossi
Francesca Rossi